La chiesa di Santa Maria e dei Santi Filippo e Giacomo

Informazioni

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Una presenza barocca che domina la cittadina

Un viaggio alla scoperta della storia e delle bellezze di un monumento religioso

Cuore della cittadina di Sandrigo è la chiesa dedicata a Santa Maria e ai Santi Filippo e Giacomo con l’antistante piazza che porta anch’essa il nome dei due apostoli.

La chiesa presenta una pianta a croce latina sormontata da una grandiosa cupola con lanterna e cupolino alla sommità. La facciata è barocca e di ispirazione palladiana, con l’intersezione di due ordini, uno maggiore e uno minore, che partono dallo stesso livello.

La chiesa attuale è ispirata ad una preesistenza settecentesca e l’architetto Ferdinando Forlati ha avuto molta premura in termini di conservazione e di memoria. Egli infatti volle che gli elementi dell’edificio precedente venissero ricomposti in questo nuovo luogo di culto, facendo in modo che non andassero perduti nel tempo. Questo tentativo di conservazione si è però limitato solamente agli elementi che costituivano l’arredo di culto e di decorazione della preesistenza, è invece andata perduta l’ambientazione che un tempo accoglieva il fedele, che oggi si trova avvolto in uno spazio decisamente più ampio e grandioso.

La chiesa antica

Fino agli anni trenta del novecento la piazza principale di Sandrigo aveva un aspetto molto diverso da quello attuale. La chiesa infatti si trovava sopra uno spiano rialzato e chiuso da un muricciolo. La scalinata principale era costituita da cinque gradini innalzati a ridosso della via antistante la pieve. Grazie ad un’scrizione è possibile risalire ad un restauro avvenuto nel 1492, di cui si conserva solamente una cornice di pietra all’interno della cappella invernale. Si tratta di una struttura lapidea con una coppia di lesene scolpite a candelabra, con motivi filiformi, capitelli corinzi e architrave ornato con testine d’angelo. Alla sommità si ha un arco a tutto sesto con conchiglia al centro che completa questa cornice. Questo altare è stato riportato alla luce durante la demolizione della chiesa antica e si è scoperto essere stato coperto da un altare seicentesco dedicato a San Giovanni Battista. Sempre nel 1492 i Sati Filippo e Giacomo divennero compatroni della chiesa e tali intitolazioni vennero mantenute anche dopo il concilio di Trento.

Durante il XVII secolo l’ambiente della chiesa era assai semplice, costituito da una navata unica e illuminato da un rosone posto al centro del timpano della facciata. Anche il portale della chiesa era molto semplice, con soltanto delle mensoline e delle bugne angolari lungo l’altezza della facciata. Il resto dello spazio attorno alla chiesa era sopraelevato rispetto alla strada e offriva ristoro ai passanti. Il campanile era addossato alla chiesa e poco più distante si trovava la casa dell’arciprete. Nel 1600 cominciò a farsi strada un ulteriore desiderio di ampliamento dato l’ampliamento demografico importante e il desiderio dei fedeli di un luogo di culto più ampio. Nel 1692 il vescovo di Vicenza autorizzò l’ampliamento dell’edificio, nominando l’arciprete Antonio Marinali sovrintendente dei lavori. Vennero chiamati al rapporto tutti gli architetti più in voga del momento, tuttavia ad oggi si conserva uno solo progetto, un lavoro in acquerello di autore ignoto datato 1696. Il progetto della nuova pieve doveva rimodernizzare l’edifico, tuttavia ci si rende facilmente conto, osservando l’acquerello, di come in realtà gran poco di quanto proposto dall’anonimo architetto si stato tenuto in conto. In definitiva i lavori portarono ad un’interpretazione barocca degli insegnamenti palladiani, con un ordine gigante di semicolonne e lesene che scandiva la facciata, poi completata da una robusta cornice e da un timpano. La decorazione prevedeva poi delle sculture lapidee poste in corrispondenza delle lesene laterali. L’attribuzione risulta abbastanza complicata, ma c’è chi azzarda il nome di Carlo Borella, architetto vicentino autore del progetto della Basilica di Monte Berico. Nel 1711 si conclusero i lavori di ampliamento della struttura, che raggiunse così la fisionomia barocca definitiva. Sei anni dopo il sandricense Francesco Tibaldo fece dono alla parrocchia di quattro sculture di angeli che vennero collocate su piedistalli vuoti a completamento del muretto antistante la facciata della chiesa.  Le opere scultoree poste all’interno delle edicole della chiesa di Sandrigo sono frutto dell’ultima fase creativa di Orazio Marinali, noto come rinnovatore della scultura veneta negli anni a cavallo tra seicento e settecento. Si potrebbe pensare che anche le statue degli angeli e quelle poste alla sommità della facciata siano opera di Marinali, ma in realtà lo sono soltanto quelle dei Santi Filippo e Giacomo, le altre invece sono sicuramente di ispirazione marinaliana, ma sono frutto di un lavoro di bottega. I santi compatroni presentano uno studio anatomico attento e un drappeggio accuratamente trattato, questa cosa si ritrova anche nei due angeli a sinistra del sagrato, ma non in quelli sulla destra dove si scorge una minore attenzione ai particolari. Entro la bottega del Marinali ritroviamo due figure che lasciarono traccia della loro attività anche dopo la morte dei loro maestri, parliamo di Angelo De Putti e Giacomo Cassetti, il primo dei quali lo ritroveremo quando si parlerà dell’altare maggiore. Restando sempre sull’esterno osserviamo le statue raffiguranti le virtù teologali poste alla sommità della facciata, opera di Agostino Testa, in particolare la Fede ha una scultura gemella che si trova nella chiesa di Sa Giuliano a Vicenza, le altre virtù sono invece differenti. La chiesa sì abbellita venne consacrata l’8 luglio del 1742 dal vescovo Antonio Marino Priuli e nel tabernacolo dell’altare maggiore vennero poste le reliquie dei martiri Eugenio, Bonifacio e Donato. Da qui in poi la chiesa rimase di base inalterata fino alla metà degli anni trenta del XX secolo. L’ambiente interno era poi strutturato su un’unica navata su cui si aprivano sei cappelle laterali e si concludeva con un coro che accoglieva l’altare maggiore intitolato ai santi compatroni. Gli altri altari minori erano dedicati a Sant’Antonio da Padova, alla madonna del Rosario, a San Giuseppe, a San Rocco, a Sant’Agata e a San Giovanni Battista. Lo spazio era scandito da lesene ioniche e il soffitto era decorato con stucchi e medaglioni, era suddiviso in nove riquadri con soggetti tratti dal Nuovo Testamento. Il soffitto del coro invece era affrescato la Resurrezione di Cristo e gli angoli con i simboli di Fede, Speranza, Carità e Religione.  Angelo De Putti in corrispondenza dell’altare maggiore realizzo poi il paliotto della Cena in Emmaus. Al centro del coro si trovava poi il tabernacolo barocco e la tela dei Santi Patroni adoranti la Vergine. Ai lati c’erano poi due statue di santi realizzate da Angelo dei Putti Vicentino, una raffigurante Mosè e l’altra re Davide presumibilmente, che completavano questa esuberante architettura. Una balaustra marmorea divideva poi il presbiterio dall’assemblea, mentre le porte laterali conducevano alla sacrestia, a sud, e all’oratorio, a nord.

Nel periodo tra le due guerre la chiesa, con i suoi soli trecento metri quadri, faticava ad accogliere tutti i fedeli. Si fece strada dunque il desiderio di ampliare il complesso, ma c’era anche chi spingeva per la costruzione di un edificio completamente nuovo. Un primo progetto di ampliamento venne presentato da Ferruccio Chemello nel 1922, tuttavia le modifiche da lui apportato non soddisfacevano appieno le necessità che si erano andate a creare con l’aumento demografico. Nel 1924 dunque i capifamiglia e il sindaco Andrea Costantini optarono per la costruzione di una nuova pieve. L’anno successivo monsignor Arena stipulò un accordo con i Padri Giuseppini, allora proprietari del Patronato Ruffini, per l’acquisto di parte del terreno del brolo per edificare la nuova chiesa. Venne anche interpellato Ferdinando Forlati, architetto della Regia Soprintendenza ai Monumenti, che dopo un’iniziale titubanza diede l’approvazione per i lavori, a patto che la chiesa venisse realizzata sullo stile della preesistente, e che il nuovo edificio accogliesse tutti gli altari e i pezzi lapidei antichi, facendo attenzione a ricostruire attentamente la facciata. Il 16 dicembre del 1927 lo stesso Forlati presentò dunque il progetto per la nuova chiesa e il 10 giugno dell’anno seguente venne ufficialmente posata la prima pietra segnando l’avvio dei lavori. Questi vennero affidati all’architetto Ferruccio Chemello, che, per desiderio della commissione, disegnò la cupola. Tutti gli elementi lapidei della facciata della vecchia chiesa vennero asportati in modo che la nuova pieve avesse un aspetto simile a quella precedente. Dopo undici anni il 2 dicembre 1939 la cittadina di Sandrigo accolse il vescovo Ferdinando Rodolfi per la solenne benedizione della nuova chiesa, nello stesso anno venne anche demolito ciò che rimaneva della vecchia struttura. L’interno della chiesa tuttavia non era ancora completato, mancavano infatti diversi elementi tra cui il pavimento. Il progetto venne affidato all’ingegnare do Federico Miotti e prevedeva il pavimento, la zoccolatura delle lesene, la corsia esterna e la gradinata, i lavori si conclusero nel 1945. Nel 1948 si dovettero inoltre rinnovare le tre campane, i ceppi e la canna del campanile e si dovette progettare e posizionare l’organo maggiore. La decorazione ebbe avvio nel 1953 e vennero chiamati il pittore veronese Agostino Pegrassi e il decoratore Pietro Negrini. I lavori cominciarono nel 1955 e terminarono nel 1958 grazie all’intervento dell’artista Adolfo Mattielli, che subentrò in seguito alla morte di Pegrassi.  Sempre nel 1958 le due ali laterali della facciata vennero dotate di modanature e volute ì per mascherare le murature dei transetti e per creare un effetto ottico che riducesse la percezione troppo verticale della facciata. Nell’ottobre di quell’anno venne organizzata la solenne consacrazione della chiesa che nel 1990 il vescovo Pietro Nonis volle insignire con il titolo di Duomo.

L’esterno

I tre blocchi della gradinata, suddivisi a loro volta in tre gradini, segnano l’ingresso al sagrato del duomo, protetto da una balaustra realizzata su un unico monolite in pietra di Vicenza. In corrispondenza della balaustra sono collocati quattro angeli a protezione del luogo sacro, usciti dalla bottega di Orazio Marinali. La facciata larga diciassette metri e alta trenta è rialzata da uno zoccolo che sostiene ed eleva tutto il complesso architettonico. Le colonne centrali, di ordine composito, incorniciano il grande portale centinato, impreziosito da una cornice di pietra con chiave di volta, motivi vegetali, drappi e un piccolo timpano lapideo, più in alto si scorge invece uno scudo bombato anch’esso in pietra. Nel medesimo piano dalle due nicchie laterali sporgono i santi patroni, sculture anch’esse provenienti dalla bottega del marinali, sulla sinistra San Giacomo il Minore e sulla destra San Filippo.  Dopo il primo marcapiano troviamo una lapide commemorativa che riassume le fasi costruttive della chiesa. L’architrave posto alla sommità dei capitelli compositi funge da sostegno della trabeazione aggettante del timpano. Nella cimasa è poi posta una lapide dedicatoria ad indicare il luogo sacro affiancata da spalle in pietra con volute laterali lavorate a chiocciola. Sull’acroterio si ergono poi le statue realizzate da Agostino Testa raffiguranti le virtù teologali: a sinistra la Fede, a destra la Speranza e ai lati del timpano la Carità, rappresentata da due figure femminili. Infine sulla sommità del timpano è posto un vaso di pietra bombato con una croce in metallo. In corrispondenza dell’intersecazione tra transetto e navata si erge la cupola poggiante su un tamburo scandito da dodici finestre centinate incorniciate da un profilo di pietra nera. Alla sommità della cupola è stata poi posta una lanterna con cupolino con la statua della Madonna in rame sbalzato alta 2,30 metri.

L’interno

Il duomo presenta un vano a croce latina e un aspetto classicistico che riprende delle caratteristiche rinascimentali fiorentine e romane, con la ripetizione a modulo dell’arco a tutto sesto segnato lateralmente da lesene con capitello composito profilato d’oro. Seguono l’architrave, il cornicione aggettante e una finestra timpanata entro uno spazio centinato da cui parte l’unghia che impreziosisce il soffitto. Una volta a botte scandisce il soffitto, interrotto da quattro archi entro cui si trovano delle unghie affrescate con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento. La navata risulta quindi scandita da sei archi in corrispondenza dei quali si trovano le cappelle. Il tutto si conclude con una cornice in pietra ad arco posta sulla controfacciata che riprende l’arco dell’abside.

La navata

Nel 1955 ebbe avvio una nuova fase decorativa che vide la realizzazione di dieci santi entro cornici rettangolari, con i nomi dei benefattori in basso, collocati lungo la navata. Partendo dalla controfacciata troviamo sulla sinistra l’immagine della beata Bertilla Boscardin, all’angolo opposto abbiamo invece il fondatore dei salesiani Giovanni Bosco. Proseguendo sempre sul lato sinistro troviamo l’apostolo Simone rappresentato nel momento del martirio, nel riquadro successivo un altro apostolo, questa volta Giuda Taddeo, anch’egli martire. Avanzando ancora riconosciamo san Mattia apostolo e a conclusione del lato sinistro il riquadro con il cardinale Giuseppe Sarto. Passando al lato destro dal fondo vediamo san Tommaso apostolo, seguito da san Bartolomeo, colto anch’egli nel momento del martirio, e sa Giacomo Maggiore. Infine a concludere il ciclo degli affreschi della navata l’apostolo sant’Andrea che viene martirizzato per mano del governatore romano a Patrasso.

Gli altari

La chiesa al suo interno presenta una serie di altari barocchi, con decorazioni marmoree e disegni che si rinnovano di volta in volta a dimostrazione della grande inventiva artistica degli autori e che al loro interno ospitano opere pittoriche di artisti molto noti all’epoca. Un primo altare che incontriamo sulla destra è quello dedicato ai Santi Rocco e Sebastiano, invocati durante le pestilenze, entrambi infatti erano stati salvati miracolosamente in seguito a gravi ferite. San Rocco è raffigurato nel gesto di scostarsi la veste per mostrare un bubbone sulla coscia, punto del corpo dove solitamente comparivano i primi segni della peste. San Sebastiano invece è colto invece nel momento in cui le frecce gli trafiggono il corpo. I due campeggiano su un paesaggio collinare dai toni freddi su cui aleggiano le figure di Dio e Gesù circondati da un coro di angeli e putti. Passando poi alla parte plastica dell’altare vediamo come sulla cornice di marmo risaltino le due colonne corinzie che reggono una trabeazione spezzata. La parte sommitale si risolve in un fastigio barocco con angioletti e un medaglione centrale cinquecentesco.       Troviamo poi l’altare dedicato a Sant’Agata, voluto dai sandricensi per ringraziare la santa dell’intercessione offerta durante le cause condotte contro i nobili locali. Infatti il 5 febbraio 1680 il comune fu riscattato dei diritti sulla donazione del terreno delle Vegre ottenendo vittoria contro gli eredi di Azzone Sesso, il quale aveva donato alla comunità tali possedimenti. Grazie ad una firma conosciamo oggi l’autore di questo dipinto, tale Bartolomeo Cittadella, che lo dipinse nel 1681. In particolare l’artista decide di immortalare il momento in cui la santa viene legata dai carnefici che poi la tortureranno fino alla morte a causa del suo rifiuto in seguito alle profferte dell’imperatore romano Decio. Parlando della struttura dell’altare possiamo dire che perfetta i canoni di una tipologia di altari frequente nel vicentino tra seicento e settecento. Innalza infatti sulla mensa un’edicola impostata su due semicolonne corinzie con architrave, cornice a dentelli, timpano curvilineo spezzato e cartiglio centrale.   San Giovanni Battista è poi il protagonista della pala del terzo altare realizzata da un autore ignoto, ma sicuramente appartenente alla scuola veneta della metà del seicento. Il santo è colto nel momento del battesimo di Gesù Cristo al fiume Giordano e presenta tutte le iconografie classiche a partire dalla veste in pelli di animali, la cintola e il manto a coprire le spalle. L’altare presenta un coronamento marmoreo con colonne frontali color ocra, trabeazione con due grandi angeli posti ai lati a livello del cartiglio decorato con tre rose. Tornando ora al lato sinistro dal fondo troviamo l’altare del battistero, la cui cornice, volta ad inquadrare il fonte battesimale, altro non è che il vecchio altare della Madonna del Rosario. Rimangono oggi le due colonne di marmo scuro striato, la trabeazione con gli angeli il medaglione centrale, la cui scritta non è più leggibile. Il fonte è posto all’interno di questa cornice ed è sostenuto da dele zampe leonine su cui partono le rispettive volute. Sulla vasca in marmo rosso, utilizzata per raccogliere l’acqua, si innalza una struttura di legno e marmo con un’apertura centrale in cui è posta una lastra bronzea raffigurante Mosè che fa sgorgare l’acqua dalle rocce per dissetare il suo popolo nel deserto. A coronamento del battistero una trabeazione dove appare un rilievo in marmo bianco dell’episodio del battesimo di cristo. Il secondo altare del lato sinistro è quello di Sant’Antonio da Padova eretto nel 1663 dalla comunità di Sandrigo e rimasto pressoché inalterato. Custodisce infatti ancora la pala originale in cui si scorge sant’Antonio in estasi all’interno della sua cella con il volto rivolto verso il bambino Gesù che gli appare attorniato da angeli che irrompono tra le nubi.  Un’opera grandiosa e ricca di dettagli attribuibile alla tarda fase di Giulio Carpioni. A concludere la navata troviamo l’altare di San Giuseppe, manufatto in stile barocco con marmi bianchi e rossi, un semplice tabernacolo, ma nessuna iscrizione che ne indichi la datazione, anche se è sicuramente della seconda metà del seicento. La statua del santo, realizzata in legno dello scultore Guido Cremasco, è collocata all’interno della nicchia centrale e viene rappresentato in maniera tradizionale con il mantello ocra, il bambino Gesù tra le braccia e il giglio della purezza in mano. Si arriva poi al transetto che presenta due altari posti ‘uno di fronte all’altro. Quello a sinistra è dedicato al Sacro Cuore di Gesù e presenta anch’esso al centro una scultura lignea realizzata da Eugenio Pozzato con l’aiuto del precedentemente citato Cremasco, collocata in una nicchia completamente dorata. L’altare barocco proviene dalla chiesa di San Francesco a Bassano. Lo stile barocco qui è molto più esuberante rispetto ali altri altari, ciò si nota nei capitelli delle colonne, o ancora dalla coppia di angeli ai lati reggenti gli scudi, dalle tre teste di cherubini al centro del paliotto, oltre che dalle dimensioni più importanti. L’altare è rialzato grazie a dei gradini ed è delimitato da una balaustra in marmo rosso e bianco. Dirimpetto troviamo l’altare della Madonna de Rosario anch’esso barocco e proveniente dalla chiesa bassanese. Ha uno sviluppo in altezza abbastanza importante, tanto da costringere il decoratore a creare un’inquadratura dipinta con le litanie mariane che potesse misurarsi con l’altezza dell’altare dal lato opposto. Il complesso marmoreo bicromo presenta una mensa riccamente decorata con degli angioletti che escono dalle volute e onorano i segni della comunione. Più in alto si trovano il tabernacolo e il tempietto a sei colonne con trabeazione spezzata che si conclude con una piccola croce. La scultura della Madonna del Rosario è posta anch’essa entro una nicchia dorata, come quella del Sacro Cuore di Gesù al lato opposto. Ai lati dell’altare sono post due statue marmoree di santi: a sinistra san Francesco con un crocifisso in mano e un cranio sotto il ginocchio, a destra Sant’Antonio con il Bambino Gesù in braccio, entrambe si pensa risalgano ad un periodo diverso rispetto al resto dell’altare, esse infatti sarebbero di fattura settecentesca. Si arriva infine all’area presbiteriale da cui si accede tramite dei gradini di marmo rosso e che un tempo era separata dalla navata tramite una balaustra, rimossa in seguito ai dettami del Concilio Vaticano II, che prevedevano una maggiore comunicazione tra presbiterio e fedeli. Prendendo in analisi l’altare notiamo immediatamente una maestosa pala d’altare raffigurante i santi Filippo e Giacomo e la Madonna, che la tradizione attribuisce a Sebastiano Ricci. A fare da cornice al dipinto un’opera marmorea che riprende in modo più solenne il modello adottato anche per gli altari minori. L’edicola, con colonne corinzie, presenta un architrave rosato, una cornice a dentelli, un timpano curvilineo e la colomba circondata da raggi dorati e testine di angeli tra le nuvole. Ai lati due angeli musicanti e sopra attorno al crocifisso ligneo altri due angeli in pietra bianca che concludono il monumento. La mensa domina il presbiterio, elevandosi al di sopra di cinque gradini rossi, è impreziosita da un paliotto di marmo decorato con un bassorilievo della Cena in Emmaus, opera di Angelo de Putti. Sopra la mensa vi è un’alzata sulla quale si erge il tabernacolo in marmo bianco di Carrara e in marmo rosso di Francia, che riprende gli altri altari della pieve e presenta una pianta ottagonale, con linee svelte e graziose. Alla sommità della mensa svetta una statuetta di Cristo Salvatore con la croce e il cartiglio dorato, aureola e torso nudo a mostrare la gloria della resurrezione.   Ai lati sono poste due statue di Angelo de Putti raffiguranti due profeti dell’Antico Testamento, Amos, sulla sinistra, e Malachia, a destra. Accanto alla mensa dell’altare si trova una croce astile in argento ed oro risalente alla fine del XVII secolo. Ai lati del presbiterio troviamo poi il dossale in noce intagliato proveniente dalla chiesa antica e riadattato. Il duomo al suo interno presenta anche il percorso della Via Crucis scandito da quattordici formelle in pietra realizzate da Napoleone Guizzon con la tecnica del bassorilievo.

Il presbiterio

Terminata la nuova chiesa, nel 1952, si cominciò a pensare alla decorazione interna, per cui vennero chiamati il pittore Agostino Pegrassi e il decoratore Pietro Negrini che si misero subito al lavoro per il completamento del presbiterio. Pegrassi in particolare riadatto un ciclo biblico già presente nella chiesa di Santa Teresa a Verona, utilizzando come modelli per i volti dei personaggi biblici dei cittadini di Sandrigo. L’opera pittorica mastodontica di Pegrassi inizia dall’abside in cui Troni, Dominazioni, Potestà e Legioni di Angeli formano un’aureola vivente attorno all’Agnello Divino. Sono affrescati nove angeli a destra e nove a sinistra divisi in tre ordini. I primi tre dal basso sono in piedi, mentre gli altri sono in ginocchio. In alto si trova l’agnello accucciato sopra al libro dai sette sigilli e tiene tra le zampe un’asta con la bandiera a croce rossa. Sempre nel presbiterio, ma ad un livello più basso sono dipinti gli evangelisti all’interno di nicchie: Matteo e Marco a sinistra e Luca e Giovanni a destra. Ai lati del della pala d’altare sono affrescati San Pietro e San Paolo.

La cupola

La decorazione dei pennacchi della cupola è l’ultima opera realizzata da Agostino Pegrassi, che morì proprio durante lo svolgimento dei lavori e venne sostituito da Adolfo Mattielli. All’interno dei pennacchi sono raffigurate scene di vita della Vergine a partire dall’Annunciazione. Sono presenti poi gli episodi della Natività, quello della Presentazione di Gesù al tempio e infine una scena di vita quotidiana in cui si vede Gesù intento ad aiutare nella falegnameria, mentre viene osservato con premura dai genitori.

La cappella invernale

Sulla destra del presbiterio si trova l’entrata per la cappella invernale, uno spazio rettangolare con un’unica navata, con pareti gremite di varie opere molto interessanti. Entrando nella cappella e guardando subito verso sinistra la prima opera che si osserva è La Deposizione di Pietro Roi, che ritrae per l’appunto il momento della deposizione del corpo di Cristo morto con attorno diverse figure, tra cui la Vergine Maria che regge il capo del figlio sulle ginocchia, Maddalena, san Giovanni evangelista, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. Proseguendo ci si trova davanti alla tela centinata di San Francesco in estasi, dove si vede il santo con le braccia aperte verso l’immagine di Cristo in gloria che appare da sinistra. Più interessante il dipinto seguente, La Madonna, Cristo, San Giuseppe in gloria e i fedeli sandricensi di Alessandro Maganza, risalente al XVI secolo. Una tela divisibile in due zone, una prima posta più in lato che presenta un’immagine corale di santi con Cristo al centro, mentre nel secondo livello, più in basso, troviamo una fiumani di uomini e al centro un sacerdote e un chierichetto che assistono a questa apparizione divina, tanto che molti hanno le mani al petto o si stanno togliendo il copricapo. Nella tela sono raffigurati dei personaggi molto noti della Sandrigo del cinquecento, in particolare riconosciamo Oliviero Sesso, fratello di Silvio. L’ultima opera di questa piccola navata è la tela di San Francesco e gli animali del sandricense Antonio Peruzzo, datato 1941. Il santo è qui rappresentato seduto con le braccia e lo sguardo alzati in segno di lode, mentre intorno a lui si radunano una serie di animali. Nell’abside della cappella è collocato l’altare lapideo del XV secolo, l’elemento più antico della chiesa, all’interno del quale è stata posta una statuetta della Madonna con Bambino. Nella nicchia a destra si trova poi il crocifisso ligneo settecentesco circondato da cuori ex voto. Delle formelle in legno scolpito provenienti dal continente africano scandiscono infine le pareti della cappella.

La sacrestia

Partendo dal presbiterio e andando verso sinistra si arriva all’entrata della sacrestia, un luogo angusto, ma ugualmente ricco di opere interessanti. Qui è infatti collocato un ritratto ad olio su tela di Monsignor Arena realizzato in occasione delle sue nozze d’argento nel 1925, o ancora un rilievo ligneo che riproduce il Battesimo di Gesù del Verrocchio. Sono due però le tele che attirano maggiormente l’attenzione, la prima che prendiamo in analisi raffigura la scena del sacrificio di Isacco, è immortalato l’attimo esatto in cui l’angelo arriva a fermare Abramo che sta per assassinare il figlio.  Nonostante il grado di conservazione non sia dei migliori e i colori terrosi del dipinto non lo rendano facile alla lettura si è arrivati alla conclusione che l’autore, con ogni probabilità, sia Francesco Maffei, allievo di Alessandro Maganza. La seconda tela che merita una menzione onorevole è sicuramente quella di Sa Pietro piangente posta sopra alla porta che conduce al presbiterio. Si tratta anche in questo caso di un olio su tela di fattura seicentesca e il pittore deve aver ricevuto l’influenza dei maestri Ribera lo Spagnoletto e Guido Reni. Gli occhi del santo sono penetranti ed esplicitano tutto il suo turbamento interiore, angoscia e pentimento sono trasmessi alla perfezione e si comprende facilmente come il soggetto stia vivendo un momento fortemente drammatico. Il protagonista del dipinto è fortemente caratterizzato, tuttavia non si può dire lo stesso dei putti sullo sfondo probabilmente di fattura successiva.